16 febbraio 1600

Angelo D'Antonio

Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse

da come appaiono, integre e false. Amo il fuoco più della scure, sono un boia degenere. Gli altri dicono – a fare questo mestiere siamo rimasti in pochi, ci sono quattro boia in tutta Roma – che con il rogo si perde il contatto con l’ascia, che manca l’azione, la maestria del gesto rapido e deciso; che manca la scarica di adrenalina provocata dal sentire, attraverso il ferro, le ossa spaccarsi, la carne sfilacciarsi e persino, per eccesso di suggestione, il calore del sangue. Ogni boia ha un rapporto intimo con la scure. L’arma è come il prolungamento di un organo sconosciuto, qualcosa a metà tra un arto ulteriore e quella parte del cervello che intuisce immediatamente l’idea di una cosa giusta e necessaria, come il rigore di una formula matematica o l’infinitezza di Dio. Ma io, pur condividendo queste osservazioni, continuo a preferire il rogo. Se la scure per noi rappresenta un arto metafisico, il fuoco è il corpo spirituale da cui dipende. Proverò a spiegare meglio.

Dico innanzitutto che il fuoco converte ogni cosa alla materia originaria che per prima fu nella mente e tra le mani del Creatore. Infatti, il fuoco tramuta in cenere, ovvero in polvere. Dunque, nella realtà comune del creato, secondo quando è scritto in Genesi. Inoltre, leggendo bene Aristotele, si può dimostrare che proprio la cenere è identica alla sostanza, essendo tutto il resto accidentale. Per questo, quando il fuoco divampa e consuma un corpo, lo scarnifica e ne disfa le fattezze secondarie, lo sbriciola al di là degli Archetipi e delle Intelligenze divine, non solo i miei occhi di boia sono rapiti dalla metamorfosi, ma anche gli spettatori assistono come si partecipa a una messa, e almeno una parte del loro rozzo spirito intuisce il carattere sacro del disfacimento, di cui io sono l’umile officiante. Il fuoco rivela, ed è scritto che Dio stesso si è mostrato come roveto ardente. Ne segue che il significato ultimo del rogo sta nella sua capacità di mostrare la verità ben più di un dotto discorso teologico o di una dimostrazione geometrica.

Sono un boia, non sono un bruto. Col tempo, ho letto molto, coltivando la mia anima per dare un significato più profondo alle esecuzioni. Non ho mai trafitto, capitozzato, strozzato o scorticato nessuno senza la contemplazione di un concetto suggerito dalle Scritture o dagli Antichi. Solo all’inizio, quando ero ancora giovane, non mi curavo della pregnanza speculativa del mio lavoro e ho sventrato e decollato con sadico, superficiale piacere. E forse proprio per rispondere a coloro che vedono in me semplicemente un assassino protetto dalla legge, un violento esecutore privo di misericordia, ho voluto distinguermi. Così ho imparato a leggere il volgare e poi il latino, ho risparmiato qualche soldo e comprato qualche prezioso volume. In fondo, il boia è un prete a cui hanno tolto l’altare e di cui conosce l’atroce segreto.

Era una gioia ardere i peccatori. Un uomo appena staccato dal rogo non ha l’aspetto fiero di una statua antica, pure ha la foggia minerale dell’esemplare, somigliante al fragile scheletro di terra appena abbozzato dal Creatore, scabro e magnifico ai suoi occhi privi di orrore, poiché Dio fa tutto secondo bellezza. Su quella trama carbonizzata Egli ha modellato i teneri organi, le ossa levigate, la pelle liscia e fattezze angeliche. Il fuoco mostra l’officina di Dio. E dopo un rogo, quando la folla, i giudici, le autorità tornano ai loro affari, appagati dal desiderio di giustizia o di vendetta, oppure affranti dalla pena, io raccolgo una parte di cenere, dell’uomo ridotto alla forma elementare. In una teca, accanto ai miei libri, ho quindici piccole urne, segnate con le iniziali di quei peccatori. Non mi vergogno di questa macabra raccolta: seleziono campioni di materia primordiale. Il carattere morboso di ogni collezionista risiede proprio nella compulsione metafisica e disperata ad antologizzare l’universo.

Era una gioia vedere divampare il fuoco. Eppure, quella di domani sarà l’ultima esecuzione. L’uomo che dovrò giustiziare a Campo de’ Fiori non è un profeta, né un filosofo greco, ma i suoi pensieri hanno raggiunto la dignità dell’uno e dell’altro. Quel frate sostiene l’infinita, immanente vitalità di Dio che è nel cosmo intero, nei suoi mondi e nell’uomo. Ho la sorte di dover bruciare vivo colui di cui ho letto le opere e che il Sant’Uffizio considera un eretico. In realtà, quest’uomo in sé già arde di verità, io non gli farò nulla. Domani ne raccoglierò un po’ di cenere e la riporrò accanto ai suoi libri. Il resto sarà gettato nel Tevere. Dopodiché abbandonerò questo mestiere. Sarò sempre un boia degenere, senza scure né torcia, senza vittime né pubblico, senza fede. Sarò un boia solo nel pensiero, un boia filosofo.

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