Quanto a ricordi, non mi batte nessuno. La memoria è la capacità di trattenere le informazioni che raccogli durante la vita, lo spazio che il tuo cervello mette a disposizione per conservarle. Ecco, se le cose stanno così, io ho il cervello diviso esattamente in due. Metà la dedico ai ricordi, metà ai
rancori dove, non lo nascondo, i miei pensieri vagano di frequente.
Sono certo anch’essi ricordi, ma risultati di una elaborazione successiva. Sono stata insegnante di matematica e vi dico che i rancori sono le derivate dei ricordi in funzione della delusione. E tutti mi hanno delusa.
Provare rancore è un piacere ambiguo ma esaltante; scende dalla testa, accarezza la gola e arriva al cuore. A volte genera rabbia. Come quella che ho provato quando mio figlio ha deciso di rinchiudermi in una clinica. Se torno a cercare il risentimento annidato in quella metà del cervello un’energia folle afferra tutta la mente, si irradia fino alle gambe, ed eccole di nuovo quasi scattanti come un tempo.
Altre volte i rancori si tramutano in compassione. Per me.
Il loro sapore, pure se amaro, mi rassicura. Mi abbraccia e mi compatisce.
Non meritavo tutti i torti sopportati. Ci metto anche l’ingiustizia subita quando è nata mia sorella, bionda e bella, ed io aveva appena tre anni. Sapete cosa significa sentirsi d’un tratto strana, sbagliata, coi capelli dalle sfumature di un’arancia marcita?
Sì, certo, ci sono pensieri gentili e profumati nella metà dedicata ai ricordi, ma di quelli non so che farne. Non mi hanno aiutano a sopportare tutta la mia vita e neanche la stanza troppo bianca, la plastica delle traversine sotto la schiena, il vassoio beige col pollo lessato.
Anzi.
La nostalgia mi rende fiacca. Mi avvicina alla morte. Passo il tempo a frugare nella memoria i rancori peggiori. Quelli che potrebbero indurti a uccidere piuttosto che a desiderare di morire.
Nulla mi rende vitale e attaccata alla vita.
In clinica, fintanto sono rimasta, non volevo ricevere visite.
Preferivo sentirmi libera di odiare chi si dimenticava di me, nonostante tutto quello che ho fatto.
Così, quando una suora è venuta per dirmi che stavo per andarmene, mi sono venute le lacrime.
«Tuo figlio ha comprato una casa più grande con una stanza tutta per te. Sei felice?».
Pensava fossi commossa, invece fremevo d’ira.
Avrei dovuto essere felice? E di cosa?
Ringraziare di essere accolta e accudita gratis. Per ogni singolo gesto, un bicchiere d’acqua, la televisione, la copertina sulle gambe.
La mia pensione era sufficiente a pagare quel posto. Perché d’improvviso dovevo perdere il mio privilegio del risentimento? Cosa c’è di bello nell’ essere riconoscenti? In quel malevolo pensiero di non essere all’altezza. Di non essere capaci.
Nella nuova stanza mi hanno messo una pianta di fiori rossi. L’ho detestata da subito e detesto la stupida bambina che viene a salutarmi ogni sera. Le hanno sicuramente detto di fare così.
«Saluta la nonna prima di coricarti».
Ma io non ho mai insegnato queste sciocchezze a mio figlio. Deve essere colpa del DNA di quell’incapace di mio marito, pace all’anima sua.
Io non le sorrido e lei fa lo stesso con me.
Ha le trecce rosse e dure. Efelidi sul viso. Penso sia brutta.
Mi fissa come un tempo io guardavo la culla di mia sorella, pensando che non sopportavo la sua invadenza; l’odore di piscio e rutti acidi.
Sento che mi odia. Mi odia come si può odiare solo chi riconosciamo simile.
Ma credo pure che non possa più rinunciare a venire qui, ogni sera a ricordare a entrambe la verità.
«Non andremo in montagna quest’ anno per colpa tua!»
Me lo ha detto in un sibilo. Come se iniettasse veleno. Un mese fa.
Bene, mi sono detta. Sai a cosa ho dovuto rinunciare io quando è nato tuo padre?
Poi si è avvicinata alla pianta e con un gesto solo ha spezzato il tronco verde. Avrebbe voluto spezzarmi il collo, ho pensato.
Il giorno dopo è venuta mia nuora a darmi le solite medicine, mio figlio a portare la cena, e poi l’infermiera per le iniezioni.
Nessuno ha notato la pianta spezzata a terra.
Neppure il giorno successivo.
Neanche ora che ha preso a marcire a terra.
Nessuno la raccoglie, nessuno toglie i petali ormai marroni appiccicati al pavimento.
Sembra invisibile a tutti tranne che a me e alla bambina.
Non ci guardiamo più. La sera rimaniamo a fissare insieme i resti sempre più disgustosi della pianta. Catturate dalla sua putrefazione come da un mistero nascosto, assoluto e affascinante.
Ormai sento chiara anche la puzza e credo che il suo odore rimarrà in questa stanza per sempre. Anche quando sarò andata via.
Così come si conserva un ricordo.
O un rancore.