Separazioni e divorzi

Anna Voltaggio

L’ufficio Separazioni e Divorzi è al secondo piano di una modesta palazzina color tuorlo d’uovo in via Morlupo 40. Lo so perché ho divorziato due anni fa e certe cose non si dimenticano.
All’ingresso c’è uno sportello con un impiegato addetto a dare informazioni per smistare i cittadini nelle direzioni corrette, a seconda delle necessità, una specie di portiere.
Mentre supero il portone osservo distrattamente l’impiegato sporgersi in avanti con tutto il busto, ha i baffi folti e gli occhiali quadrati come si usavano negli anni ’70. Indica con la mano una stanza in fondo a destra alla donna che ha davanti e penso che tutto sommato sia un buon servizio questo sportello, pratico per far risparmiare tempo e inutili peregrinazioni ai cittadini. Dal momento che io so perfettamente che l’ufficio Separazioni e Divorzi si trova al secondo piano mi dirigo con sicurezza verso le scale.
Non faccio neanche metà percorso che da dietro lo sportello l’impiegato mi grida:
«Dove sta andando? C’è la fila».
«So dove devo andare, grazie». E mentre parlo alzo il braccio verso il soffitto per indicare il piano superiore. Per tutta risposta quello indica la fila dello sportello e imposta un tono severo: «Non vede che c’è una fila?».
Poi scambia un’occhiata piena di amarezza con la signora davanti a lui.
Provo a ribattere ma non mi guardano più, come se non ci fosse nient’altro da dire su questa faccenda.

Un uomo stempiato sulla sessantina, in fila per lo sportello, si volta nella mia direzione e mi guarda con gli occhi immobili. Tiene in mano una cartella zeppa di pratiche, gli sorrido molto affabilmente e torno a indicare col il dito il soffitto.
«Non era per saltare la fila, solo che so già dove…».
Mentre parlo l’uomo torna a guardare davanti a sé con una flemma che mi stordisce.
Forse mi conviene aspettare e chiedere come tutti gli altri, se c’è una cosa che non porta risultati negli uffici pubblici è la polemica.
Una volta arrivato il mio turno noto che l’impiegato alza un sopracciglio come a rimarcare la sua pessima opinione, ma forse è solo una mia idea.

«Mi dica cosa deve fare».
«Buongiorno. Devo richiedere un documento che certifichi il mio divorzio, perché nello stato civile, stranamente, risulto ancora sposato quindi come le dicevo stavo andando al secondo piano, all’ufficio Separazioni e…»
«Deve andare all’URP non a Separazioni e Divorzi».
«E dov’è l’URP?».
«Terzo piano, prima stanza dopo i bagni».
«Grazie mille».

Mentre salgo le scale penso che lo sportello informazioni ha proprio una sua ragione, le pratiche degli uffici pubblici fanno tortuosi giri e non si può mai sapere quali siano le procedure stabilite.
Trovo subito la porta con scritto URP, e una macchinetta da cui devo prendere il numero come quelle del banco salumi. Ho il numero 74 e il display indica che sono al numero 72. Mi accomodo in una delle sedie in plastica grigia.
C’è una signora anziana prima di me, in piedi davanti alla porta. È particolarmente bassa, infagottata in un giaccone che le rende complicati i movimenti. Cerca di riportare la tracolla della sua borsetta sopra la spalla ma quella scivola di nuovo giù fino alla piega del gomito e la signora continuamente la rimette al suo posto. Questo fatto si ripete a cadenza regolare, ogni due minuti da quando sono arrivato, e mi verrebbe voglia di dirle che sarebbe meglio togliersi il giaccone o tenere in mano la borsa, che è inutile continuare a riportare la tracolla sulla spalla.
Ma lei sembra non farci caso, non la disturba. La tira su, quella ricade, e lei la ritira su.
A un certo punto si volta dal mio lato e mi chiede,

«Anche lei deve fare un reclamo?».
«No. Sono qui per un documento».
«Ah. Io devo fare un reclamo. Lo faccio tutti i mesi».
«Sempre lo stesso? Non si risolve?».
«No, no. Mica sempre lo stesso. Faccio reclami diversi».
«Che reclamo fa questo mese?».
«Spazzatura. Non la ritirano. Si accumula e si accumula che è uno schifo».
«Scusi se le chiedo, ma quando fa i reclami poi qualcosa cambia?».
«No».
«E perché continua a farli?».
«Giovanotto, e che ci si rassegna?».

Non so cosa rispondere e per fortuna si apre la porta dell’ufficio URP, la signora entra con un passo dondolante che la fa sembrare un pinguino e la tracolla della borsa le scivola un’altra volta lungo il braccio.
Io aspetto, indeciso se pensare che quel genere di ostinazione sia una forma di speranza per la società o lo sia unicamente per la vita della signora. Certo è che ho preso la mia agendina nera dal borsello e ci ho appuntato sopra: sono uno che si rassegna?
Dieci minuti dopo un uomo calvo ma con la barba apre la porta e attacca sul muro un foglio che riporta la scritta “l’ufficio resterà chiuso per la pausa pranzo fino alle ore 14” e poi rientra senza badare alla mia presenza.
Busso e intanto il mio cellulare squilla.
Lisa mi chiede dove sono, più per una consuetudine che per interesse. Da quando ci sono i cellulari uno dice “Ciao, dove sei?”, invece che “ciao, come stai?” e mentre tamburello con le dita sulla parete alle mie spalle le rispondo senza difficoltà che sono a scuola e che sta per cominciare il collegio docenti.
«Solo una cosa veloce», dice. «Ricorda di ritirare le partecipazioni del matrimonio prima delle sei, che poi chiudono».
«Certo».
Non è la prima volta che mento a Lisa da quando la conosco.
Di nuovo tiro fuori il taccuino dalla tasca, e scrivo: sono un bugiardo?
Lisa non sa che ieri, mentre raccoglievo i documenti che dobbiamo presentare per chiedere il mutuo alla banca, ho scoperto che per lo Stato, o almeno per la parte burocratica dello Stato, risulto ancora sposato.
Il mio precedente matrimonio è un argomento spinoso e così non le ho detto niente.
Intanto l’uomo calvo con la barba apre la porta,
«Dica».
«Scusi il disturbo, ho letto della pausa pranzo ma ho solo bisogno di un certificato, magari è una cosa di un attimo, così posso…», e ho indicato l’uscita, sperando di non dover continuare la frase.
«Posso cosa?».
«Andare».
«Che certificato?», mi chiede l’uomo, fermo sulla porta semiaperta, come se fossi un rappresentante di aspirapolveri che non vuole fare entrare.
«Un certificato che attesti che sono divorziato».
«È divorziato?».
«Certo».
«Non lo rilasciamo qui, deve andare a Separazioni e Divorzi, piano sotto».
«Allo sportello informazioni mi hanno detto che devo richiederlo all’URP».
«Qui deve esporre il reclamo per non averlo ancora ottenuto e noi passeremmo il reclamo all’ufficio competente per sollecitare. Se vuole, può provare ad andare direttamente da loro, per me è uno in meno con cui parlare ma quelli di Separazioni e Divorzi sono pignoli. Veda lei».
«Provo ad andare direttamente al piano di sopra».
«Di sotto».
«Di sotto».
«Ecco, provi. Che facciamo tutti prima».

Scendo al secondo piano e attraverso il corridoio in graniglia gialla fino alla porta in cui due anni fa ho firmato il mio divorzio con Eva che mi fissava in silenzio aspettando che scrivessi il mio nome. Aveva uno sguardo pieno di risentimento come se le avessi fatto perdere fin troppo tempo.
Ricordo che in quel momento, davanti l’ufficiale che mi sembrava rattristato per la situazione, le avevo detto che per me nonostante tutto erano stati in gran parte anni molto belli. Lei aveva inarcato le sopracciglia e stretto le labbra in un sorriso all’ingiù come se avessi detto qualcosa di assurdo e non aveva risposto niente.
Adesso fisso la targhetta dell’ufficio Separazioni e Divorzi, mi sembra di poter vedere attraverso la porta la mia schiena incurvata di due anni fa, il gomito saldato al tavolo come un perno e la mia mano, che un poco tremava, mettere la firma sul documento.
Chiudevo con i suoi occhi verdi, i suoi capelli sempre lunghi, il suo culo perfetto come un pianeta. Chiudevo anche con i suoi tradimenti e le crisi di silenzio, le sfide dialettiche che mi facevano venire mal di testa, le sue insonnie, la sua fobia dei ragni, le sigarette al mentolo, il trekking in primavera, le multe per eccesso di velocità.
La mattina in cui mi sono affacciato in bagno, si stava truccando gli occhi di violetto e senza tanti giri di parole (mi vedevo con Lisa da quasi tre mesi) le avevo chiesto il divorzio, senza sapere cosa aspettarmi.
Lei mi aveva risposto: “Grazie”.

Non è che di Lisa fossi innamorato, ma sapevo che con Eva si era intoppato qualcosa e come tutti gli uomini avevo creato un minimo di condizioni per non sentirmi un perfetto naufrago.
Di come, poi, sono arrivato a fissare il giorno del mio secondo matrimonio, non ho un’idea precisa. Non c’era stata nessuna proposta da film americano, ricordo che durante una cena Lisa aveva detto “quest’anno potremmo sposarci” e io le avevo guardato la scollatura, sorridendo. Non penso di averne riparlato in altre occasioni. Ma da un certo momento in poi, nelle nostre settimane si affacciavano impegni relativi al matrimonio.
Ripensando a tutto questo, annoto: Io sto scegliendo la mia vita?
«Prego», dice la signora che intanto ha aperto la porta dell’ufficio.
Entro e mi indica una scrivania laterale che non ricordavo. Si mette al suo posto e io le siedo di fronte.
«Mi dica».
«Buongiorno, io ho bisogno di un certificato che attesti il mio divorzio. Prima che me lo chieda, sì, ho divorziato due anni fa ma non risulta nei documenti ufficiali».
«Che intende per documenti ufficiali? Mi dia un documento suo, intanto».
«Devo chiedere il mutuo in banca e tra i documenti richiesti c’è lo stato civile. Quando sono entrato sul sito del comune per scaricarlo, con una certa sorpresa mi sono ritrovato ancora sposato e dato che tra due mesi mi sposo, (sì, di nuovo) mi dispiacerebbe dover dire alla mia futura moglie che lo Stato italiano non consente la bigamia».
«La vera perversione non è mai tradire», dice con lo sguardo rivolto a un raccoglitore gonfio di documenti. «È voler ricominciare tutto daccapo».
Io, dopo quella frase non riesco a deglutire. Poi c’è silenzio.
La donna continua a sfogliare, come se stesse cercando qualcosa lì in mezzo e butta un’occhiata rapida sulla mia carta d’identità.
Prendo il taccuino dalla borsa e scrivo: la vera perversione è ricominciare tutto daccapo?
«Quando ha detto di avere divorziato?»
«Due anni fa».
«Ah».
«Quale sarebbe il problema?».
«Che lei si è sposato a Palermo mica qua».
«Ma ho divorziato qua».
«Lo vedo».
«E quindi?».
«Quindi il Comune di Palermo non ha registrato i documenti che gli abbiamo mandato, o si reca al Comune di Palermo oppure deve aspettare che ci spediscano l’attestato di divorzio».
«Ma lei su quel computer lo legge che sono divorziato?».
«Sì».
«E non può stamparmi questo foglio?».
«No, c’è un iter».
«Eh, ma è lento questo iter?».
«Sì, è lento».

Adesso sono seduto su una panchina, nel parchetto di fronte via Morlupo 40.
C’è un vecchio con un cane che da diversi minuti passeggia avanti e indietro proprio di fronte a me e più di una volta si è voltato a guardarmi. Ha gli occhi liquidi e un sorriso lieve che s’incurva quando rilassa il viso. Ho la vaga sensazione che mi somigli, indossiamo anche lo stesso paio di scarpe, anche se io con un cane non mi ci vedo proprio. Un gatto, magari, che passeggia sui libri lasciati in disordine su un tavolo basso davanti al divano. La tv accesa sulle olimpiadi del 2050, senza volume.
Io che ricordo di Eva, e di Lisa. Di tutte le donne che mi hanno tenuto vicino per una porzione di vita, un pezzetto di cammino, che si sono occupate di me. E ricordando, rifletto sull’eterna contraddizione tra il desiderio e l’aspirazione alla stabilità, alle radici profonde di questa incomprensione che genera la vita.
Ma in fondo sono soltanto un uomo, penso. Un meraviglioso violino costruito con il legno di pioppo.
A un certo punto il vecchio si ferma, impalato al centro del vialetto con la ghiaia, e il cane si accoscia accanto alla sua gamba. Tira fuori dalla tasca della giacca un taccuino nero e una matita, e lì in piedi, con il cane che lo aspetta, mi guarda di nuovo e annota qualcosa. E poi se ne va.

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